Titane – Recensione

Written by Chiara Volponi

Marzo 18, 2022

Titane Recensione

 

Titane Recensione – Vincitore della Palma d’oro al festival di Cannes 2021, Titane di Julia Ducournau si è rivelato fin da subito un film divisivo, capace di suscitare di pari passo acclamazioni e obiezioni per la violenza grafica, le tinte pulp e la trama a tratti surreale e grottesca, elementi che portano sempre molti ad accusare l’intento di voler solo scandalizzare lo spettatore.

Ma Titane è un film che difficilmente lascia indifferenti, nel bene o nel male. Che Ducournau fosse una regista promettente lo si era capito fin da Raw, il suo lungometraggio d’esordio, in cui già si erano definiti molti dei tratti salienti del suo cinema: l’ironia, le scelte estetiche in grado di unire sensualità e grottesco, la propensione per la rivisitazione in chiave horror di desideri primordiali, e, primo fra tutti, la scelta di una protagonista che riscrive in una prospettiva femminile molte delle istanze e dei cliché del genere horror. Titane spinge ancora di più l’acceleratore sulla lontananza dal genere canonico di riferimento, aumentando anche lo stile pulp, la distanza tra la violenza messa in scena e la sua ricezione in chiave ironicamente distaccata. 

Generalmente classificato come un body horror, in Titane le caratteristiche del genere di riferimento diventano parte di un discorso sulla mostruosità come emblema della diversità e del senso di non appartenenza. La protagonista, Alexia (Agathe Rousselle) è una ballerina di motor show con una placca di titanio impiantata nella testa, conseguenza di un’operazione subita da bambina a seguito di un incidente stradale. È proprio il titanio a fungere da spiegazione per la sua parafilia, quella per le macchine, una costante nella sua vita, e con cui Alexia ha dei rapporti sessuali. Anche le macchine, però, sono esseri -almeno sessualmente- senzienti, e, a seguito di uno di questi rapporti, la ragazza rimane incinta.

Le macchine sono le uniche che Alexia ami: il rapporto con i genitori, soprattutto quello con il padre (interpretato dal regista francese Bertrand Bonello), è freddo e distaccato, il rapporto con la collega Justine, con la quale instaura una relazione sentimentale (Garance Marrillier, protagonista di Raw) degenera presto. Alexia è una serial killer, che seduce coloro che provano ad avere rapporti sessuali con lei per poi ucciderli, ma non si tratta né di vendetta né di difesa.  La prima vittima – sullo schermo, ma non in assoluto – è un ammiratore che la insegue per un autografo, che Alexia uccide grazie al suo fermaglio per capelli, che gli infila nel condotto uditivo (lo stesso fermaglio con cui poi proverà a provocarsi da sola un aborto). In una scena dal sapore pulp, a suon di musica leggera, Alexia agisce come l’assassino di un film slasher, uccidendo tutti gli invitati – sessualmente attivi – di una festa in casa, compresa Justine, da cui si salva solo una donna, che riesce a fuggire.

Se da un lato non c’è una giustificazione per il comportamento di Alexia, se non proprio la sua stessa natura e in parte l’incidente subito da bambina, dall’altro la narrazione, anche grazie al suo distacco dovuto ai momenti comici e grotteschi, contribuisce – forse ipocritamente – a creare empatia nei confronti di Alexia, o almeno a bilanciare la violenza inflitta con quella autoinflitta. E infatti, dopo aver ucciso anche i genitori in un incendio alla sua abitazione, Alexia deve cambiare identità per sfuggire alla giustizia, e assume le sembianze di un ragazzo, Adrien, scomparso anni prima. Per farlo, si impartisce una dolorosa trasformazione fisica, che comporta anche dover nascondere la sua gravidanza, stringendo il ventre in strette fasce di garza. 

Adrien incontra così il padre, Vincent (Vincent Lindon), che lo riconosce subito come figliol prodigo decidendo di non sottoporsi al test del DNA. Nonostante la stranezza e il mutismo del figlio ritrovato, Vincent non si tira indietro e con determinazione e ostinazione, lo trasforma ai suoi occhi nel figlio perduto, e impone la sua visione anche a chi gli sta intorno, in particolare ai ragazzi della squadra di pompieri di cui Vincent è a capo, e in cui Vincent fa entrare Alexia/Adrien come apprendista. Il suo amore paterno è allo stesso tempo tenero e totalizzante, e privo in ogni aspetto di tratti di maschilismo tossico o di una paternità improntata su valori tradizionali di virilità: i suoi sentimenti sono cristallini e non vengono mai nascosti davanti agli altri; al contrario, Vincent mostra il suo amore per il figlio al limite della cecità di fronte alle sue effettive contraddizioni. Ma il suo affetto è contagioso, e alla fine conquista anche Alexia. I due instaurano un rapporto di convivenza, in cui inizialmente lei deve nascondere la sua vera identità, ma diventa progressivamente sempre più chiaro che Vincent non è interessato a chi ha davvero di fronte, perché, come le dice, “non mi importa chi tu sei, per me sei mio figlio”. 

Il rifiuto di guardare in faccia la realtà, così, diventa accettazione della stessa: accettare il prossimo diventa tanto più importante quanto è necessario per mettere fine alla propria solitudine e al bisogno di affetto. Vincent è spaventato dalla prospettiva della vecchiaia, per prevenire la quale si sottopone a iniezioni giornaliere di steroidi, mentre Alexia ha bisogno della sua falsa identità per sopravvivere, ma, lentamente, anche per lei la convivenza con Vincent si trasforma in qualcosa di simile all’affetto verso un altro essere umano, nello specifico un padre che Alexia prima non ha mai amato, così come il padre, probabilmente, non ha mai amato lei.

Ducournau intarsia il tessuto narrativo della nuova convivenza con momenti in cui manifesta tutte le sue preferenze stilistiche ed estetiche. La monotonia è spezzata dalle fiamme di un incendio in cui la squadra interviene, il cui aspetto sembra quello ipnotico e seducente di una festa proibita, dalle note della macarena intonate da Vincent per insegnare ad Alexia i tempi della respirazione bocca a bocca, e poi dalle feste nella caserma dei pompieri, in cui Vincent e Adrien/Alexia ballano un lento, così come a casa, dopo cena, per spezzare il silenzio di Adrien. Lo stile di Ducournau si imprime in ogni scena, rendendo Titane il manifesto di uno stile che rende il grottesco delle scene visivamente accattivante e seducente. 

Nonostante la scelta dell’elemento fantastico non sia poi del tutto rilevante per lo sviluppo della trama, questo continua ad intersecarvisi con il progredire della gravidanza di Alexia, e con il suo latente desiderio sessuale verso le macchine, che sono sempre l’oggetto del suo amore. Così Alexia si esibisce in uno stacchetto – comicamente imbarazzante agli occhi dei suoi colleghi – su un camion dei pompieri, con cui alla fine ha un rapporto sessuale. 

Il rapporto di Alexia con le macchine è dopotutto un segno della sua diversità, uno degli elementi che la rendono irrimediabilmente diversa da chi le sta intorno, e la gravidanza non fa che aumentare il parossismo della sua situazione. La sua diversità è l’elemento che la contraddistingue, alla radice del suo comportamento. Allo stesso tempo, la diversità di Alexia trova un equivalente nel corpo che invecchia di Vincent e nella sua incapacità di accettarlo, e al suo conseguente bisogno di trovare qualcuno che lo aiuti a superare il dolore della perdita e della trasformazione. Il corpo è centrale: non solo per via della lastra di titanio impiantata nel cranio di Alexia, ma anche per la sua trasformazione da donna a uomo, per quella di Vincent da uomo adulto ad anziano, ed ancora perché è il corpo ad ospitare una nuova misteriosa vita, un ibrido tra macchina e umano. È nel senso implicito, più che esplicito, della trasformazione corporea che Titane può essere assimilabile ad un body horror, che non accentua troppo la rappresentazione di quella stessa mostruosità sul piano fisico quanto su quello concettuale, come emblema della diversità e del suo bisogno di essere accettata.

Benedetta Mastronardi

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