
Proprio oggi, il 5 marzo 2011 usciva nei cinema Red State, film horror di Kevin Smith.
A dieci anni dalla sua uscita abbiamo deciso di omaggiare questo lavoro con la nostra recensione!
Red State è un film scritto, diretto e montato da Kevin Smith. Fu presentato al Sundance Film Festival del 2011 ed è stato distribuito in Italia dalla Eagle Pictures
Tre liceali si mettono in contatto con una donna tramite una app per appuntamenti. Con la promessa di un rapporto sessuale, questa si fa raggiungere presso la sua abitazione ma, una volta arrivati, i giovani scopriranno di essere stati adescati dalla comunità religiosa del reverendo Cooper, dedita al sequestro e all’omicidio di coloro che commettono peccati di natura sessuale.
I preparativi per l’esecuzione sommaria dei giovani hanno luogo presso la proprietà di campagna di Cooper, dove nel frattempo sono stati portati. Non volendo rassegnarsi a morire, i tre si danno a un disperato tentativo di fuga. Questa loro azione porterà a uno scontro a fuoco che, per puro caso, sarà notato dalle forze dell’ordine. L’intervento della polizia, prima locale poi federale, non sarà però capace di mettere fine alla spirale degli eventi. Anzi, le azioni degli agenti accelereranno l’escalation della violenza.
Tre diverse forme di violenza
La narrazione di “Red State” è suddivisa in tre atti, ognuno dei quali è caratterizzato dal prevalere nel racconto della vicenda di un diverso punto di vista. Tramite questo espediente, Kevin Smith riesce a rappresentare tre diverse forme di violenza sistemica.
La violenza più evidente e più facile da condannare è quella perpetrata dalla setta del reverendo Cooper. Essa ci pone di fronte a una condizione inaccettabile, contro la quale la società contemporanea non ha però alcun rimedio: se i rapimenti e gli omicidi compiuti dalla congregazione sono ovviamente atti illegali, le loro proteste aggressive e immotivate contro la comunità queer (e, in generale, contro chiunque non si adegui al loro codice morale) sono, al contrario, considerate legittime. Risultano, nell’interpretazione che gli viene data oggigiorno, addirittura protette dalla legge per la libertà di parola.
Un attimo meno impressionante, ma comunque terribile, è la violenza messa in atto dalle forze dell’ordine. La polizia appare incapace di proporre una soluzione alternativa alla brutalità e, cosa ancora peggiore, non sembra essere interessata a ricercarla. Le uniche preoccupazioni dell’istituzione sono il mantenimento dell’ordine – quello stesso ordine che gli permette di sopraffare qualunque minaccia con l’uso della forza – e l’evitare di essere chiamata a rispondere delle proprie azioni di fronte al grande pubblico.
Infine, la terza forma di violenza è quella che caratterizza i ragazzi. Essa si manifesta principalmente nel loro linguaggio, che è indicativo della maniera con la quale si approcciano al mondo: una donna che esprime apertamente il proprio desiderio sessuale è una “puttana”, utile per soddisfare i propri bisogni ma fondamentalmente da disprezzare o compatire; similmente, un amico che non si mostra entusiasta di fonte alla prospettiva di un’orgia è un “frocio”, cioè un debole.
Un’unica radice
Non possiamo certo porre i tre teenagers sullo stesso piano degli esaltati guidati da Cooper e neanche possiamo paragonarli ai poliziotti: loro sono innanzitutto delle vittime. La cattiveria banale che esprimono e che li caratterizza non è però completamente aliena alla volontà di sopraffazione degli altri gruppi.
Il film non si limita infatti a mostrarci tre diverse forme di violenza sistemica, ma ci indica anche come queste poggino tutte sulla medesima base culturale. La follia omicida dei fanatici, la distaccata brutalità delle forze dell’ordine e la squallida mancanza di empatia degli studenti sono ugualmente frutti della società americana che, non avendo la capacità di contrastarle, coltiva al suo interno queste degenerazioni.
A rendere ancora più terrificante questa situazione c’è poi la diffusione delle armi da fuoco, che è avvenuta ed avviene senza che nessun reale controllo. Di fronte a essa diviene infatti terribilmente chiaro come sia innanzitutto la potenza di fuoco a determinare i rapporti di forza.
Se la situazione è questa, e l’ordine sociale si regge proprio sulla violenza, possiamo ancora considerare delle degenerazioni i comportamenti messi in atto dai personaggi del film? Non sarebbe più corretto riconoscerli come le dirette conseguenze della struttura che la società americana si è data?