
Cabinet of Curiosities, la serie antologica Netflix prodotta da Guillermo del toro, si apre con il mediometraggio Lotto 36. E la stanza delle meraviglie di Del Toro si apre proprio, con questo primo episodio, come il lotto del titolo. L’intera serie è costruita come un garage pieno di stranezze, in cui tuffarsi senza sapere cosa ci aspetta: alcune di queste saranno delle perle, altre delle delusioni.
Il primo episodio si colloca a metà, con una prima parte che fa dell’ambientazione claustrofobica e della presentazione dei personaggi il suo punto forte, ma si perde in una seconda parte con esposizioni prolungate, e un finale un po’ affrettato. Il regista, Guillermo Navarro, pone molto l’accento su un’America razzista, che nasconde la sua volontà conquistatrice sotto il vessillo degli aiuti umanitari. Il protagonista si fa portavoce di questa mentalità, prendendo senza diritto, se non quello del denaro, il possesso di lotti appartenuti ad altre persone.
La macchina da presa si muove bene, grazie ai carrelli, nei labirintici corridoi in cui si trova anche il lotto 36; è invece più impossibilitata a muoversi all’interno del lotto stesso, pieno di oggetti di qualunque tipo.
L’ossessione dell’uomo di spingersi sempre più in profondità, che sarà il topos principale di tutti gli episodi di Cabinet of Curiosities, è qui giustificata dalla bramosia di denaro del protagonista. Lotto 36 è sicuramente un episodio che merita una visione, nonostante alcune digressioni poco utili alla narrazione. Nota di merito anche per la creatura finale, costruita con un giusto equilibrio tra computer grafica e make-up.
Nel secondo episodio di Cabinet of Curiosities, Vincenzo Natali non delude nella sua trattazione di un orrore lovecraftiano sull’avidità. Dopo l’apertura della serie con Lotto 36, ci pensa il regista canadese ad alzare un po’ l’asticella del prodotto Netflix.
Il mediometraggio è ambientato a Salem, città portuale del Massachusetts che assomiglia ad una Londra dell’800. I colori freddi e scuri la fanno da padrone, e solo in poche scene filtrano alcuni esili raggi di luce. E infatti il cammino che dall’inferno porta alla luce è duro, come afferma più volte il protagonista della vicenda: Masson, un custode del cimitero che fin dalla prima apparizione rivela la sua corruzione morale.
I ratti sono stati usati fin dagli albori del cinema horror come rappresentazione della sporcizia, della malattia e dell’ambiguità. I ratti del cimitero non è esente da questo cliché, con una precisazione: questi ratti sono solo frutto della mente del protagonista, sono una rappresentazione del suo senso di colpa. Infatti essi lo spaventano a morte, ma non lo aggrediscono in alcun modo. Sarà lui stesso a ferirsi nel tentativo di sfuggirgli, e si immergerà sempre di più nella profondità della loro tana.
I volti spigolosi e sporchi degli abitanti di Salem sono perfettamente collocati in questa cittadina. Sia i vivi che i morti subiscono una deformazione fisica attraverso filtri della fotografia o specchi all’interno dell’inquadratura stessa. Non si risparmiano piani ravvicinati su ferite infette e bocche in decomposizione. Il tutto per dare l’effetto di un umanità ripugnante e animalesca tanto quanto i ratti che li spaventano.
In conclusione, il regista che ci ha deliziato con film diventati cult come Splice e The cube non ha deluso le aspettative, riuscendo in poco più di mezz’ora ad imbastire un racconto non particolarmente originale, ma che rappresenta una riuscita discesa nella disperazione. Ottimo anche in questo episodio il comparto visivo.
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